DISOBBEDIENZA INCIVILE



ovvero
La verità sui “Disobbedienti”

(Si consiglia di stampare questo scritto e leggerlo comodamente)

Dietro richiesta, condivido volentieri il mio bagaglio di conoscenze per fare chiarezza su una questione che mi sta particolarmente a cuore: il principio della “Disobbedienza civile”, al quale il presunto movimento dei Disobbedienti afferma di ispirarsi. Dico “presunto” perché, alla luce di un’analisi neanche tanto approfondita, si scoprirà ben presto che l’unico legame esistente tra i Disobbedienti e la “Disobbedienza civile” consiste in una mera assonanza fonetica. Tutto il resto — e intendo tutto ciò che i media e gli stessi Disobbedienti, a partire dai (mis)fatti del G8 di Genova, hanno detto e riportato — è privo di ogni palpabile fondamento: ciò che potremmo chiamare una “appropriazione indebita”. Di che cosa? Dell’appellativo che i Disobbedienti si sono dati, tanto per cominciare. Un titolo che “programmaticamente” trae origine da un altro titolo, famoso ma non per questo conosciuto, che appunto recita: “La disobbedienza civile” (Civil Disobedience).
Ora, ai tempi del G8 di Genova, leggendo i giornali, guardando i TG, ma soprattutto seguendo i dibattiti che videro protagonista Luca Casalini, leader e portavoce ufficiale dei Disobbedienti italiani, non ricordo di aver mai sentito nominare Henry David Thoreau: se da una parte questo fatto mi lasciava sgomento, dall’altra mi rincuorava profondamente. Perché? Molto semplice: essendo Thoreau l’autore del saggio sulla “Disobbedienza civile” (1849), davo per scontato che qualcuno (Casalini in primis) evocasse prima o poi il suo nome discutendo di certi argomenti; anche solo “per la cronaca”. Invece niente, neppure un vago accenno. Ma l’amara delusione iniziale divenne presto un dolce sollievo: infatti, conoscendo a fondo sia la vita che l’opera di Thoreau, fui davvero felice che il suo nome non venisse associato non solo a quanto vedevo succedere per le strade di Genova, ma soprattutto a quanto sentivo asserire e propagandare da Casalini e dai “suoi” Disobbedienti.
Chi era dunque Thoreau e che cosa predicava, e chi sono e che cosa praticano i Disobbedienti?
Per rispondere a queste domande nel modo più breve ed obiettivo possibile, mi atterrò a quegli aspetti che interessano specificamente le due parti in causa, mettendole a confronto per mezzo di uno schema di immediata comprensione:

1. Thoreau non riconosceva al di sopra di sé altra autorità se non quella di Dio e della Sua Volontà-Giustizia (o Leggi di Natura, ciò che Thoreau chiamava anche "Leggi più alte"). I Disobbedienti sono generalmente atei e si rimettono unicamente all’autorità di altri esseri umani (giustizia terrena e leggi dell’uomo);
2. Thoreau non votò mai in vita sua e non si schierò mai con un qualsiasi partito, credendo che la politica fosse "per l’uomo come il fumo del suo sigaro". I Disobbedienti sono palesemente schierati e tengono in gran conto la politica.
3. Thoreau riteneva il “patriottismo” una virtù. I Disobbedienti respingono il concetto stesso di “patria”.
4. Thoreau era un individualista. I Disobbedienti sono collettivisti (o comunisti).
5. Thoreau riteneva che ogni significante riforma sociale dovesse innanzitutto partire dall’individuo, ossia che ciascuno dovrebbe prima di tutto riformare se stesso, poiché solo in tal modo la società potrà risultare sostanzialmente e “automaticamente” cambiata (“dall’interno”, potremmo dire). I Disobbedienti sostengono l’esatto contrario, ossia che occorre riformare la società agendo “in massa” e “sulle masse”, affinché i singoli individui possano in seguito godere dei cambiamenti così prodotti su larga scala.
6. Thoreau passò una notte in prigione per aver rifiutato di pagare una tassa che egli — e non la “collettività” — riteneva ingiusta; oltre che a fornire l’ispirazione per il saggio sulla “Disobbedienza civile”, questo episodio valse per Thoreau come “esempio dimostrativo” del modo in cui bisognerebbe agire in presenza di un fatto che il singolo individuo ritiene ingiusto, e cioè affrontandolo di persona, assumendosi le proprie responsabilità e accettandone le personali conseguenze, senza coinvolgere persone estranee al fatto e soprattutto senza causare disordini pubblici. I Disobbedienti, al contrario, ritenendo di interpretare l’opinione della collettività, affrontano una ingiustizia sociale manifestando in gran numero, condividendo le responsabilità del gruppo e in tal modo eludere possibili conseguenze personali, solitamente coinvolgendo persone estranee al fatto e spesso causando disordini pubblici (vedi il G8 di Genova, o gli scioperi, o le manifestazioni in genere).
7. Il famoso motto che apre lo scritto sulla “Disobbedienza civile” — "Il miglior governo è quello che non governa affatto" — deve sottintendere, come lo stesso Thoreau s’affretta a spiegare poco dopo, che ciò sarebbe possibile, e anzi auspicabile, solo a patto che i cittadini fossero "preparati" e avessero sviluppato "una propria coscienza", affinché ciascuno sia in grado di stabilire "cosa è giusto e cosa è ingiusto" senza rimettersi alle "decisioni della maggioranza". I Disobbedienti, forse per colpa di certe “interpretazioni accademiche” maturate negli Anni ’60 e ’70 del Novecento, ossia in piena epoca di “contestazione”, quando appunto cominciò a circolare la traduzione italiana de “La disobbedienza civile”, riducono quel motto a un manifesto di “anarchia”, laddove, invece, Thoreau stesso chiarisce: "Per parlare praticamente e da cittadino, a differenza di quelli che si definiscono anarchici [nel testo originale: no-government men, o “negatori di ogni governo”], io non chiedo l’immediata abolizione del governo, ma chiedo (e subito) un governo migliore. Che ognuno renda noto quale tipo di governo ispirerebbe il suo rispetto, e ciò sarà il primo passo per ottenerlo" [corsivi miei].

La disanima potrebbe continuare, ma ritengo che siano ampiamente sufficienti questi pochi paragoni, o “dati incrociati”, per mettere in risalto le differenze più eclatanti tra il “padre” della “disobbedienza civile” e coloro che si proclamano i suoi “figli”. E figli potrebbero anche esserlo, ma illegittimi e “disobbedienti” nel vero senso della parola, cioè indisciplinati e inosservanti delle “lezioni” paterne. E non importa tanto stabilire se siano più sani i princìpi di Thoreau o dei Disobbedienti: ciò che conta è aver (di)mostrato che essi sono diametralmente opposti; e fosse anche per questo singolo fatto, nessuno dovrebbe (più) permettersi di accomunare i Disobbedienti con la dottrina della “disobbedienza civile”. Oltre che una palese dimostrazione di ignoranza e di superficialità, sarebbe (ed è) una grave mancanza di rispetto verso Thoreau e verso tutti coloro che hanno dedicato parte della loro vita a studiare, approfondire, divulgare e soprattutto cercare di mettere in pratica gli insegnamenti che amorevolmente Thoreau ci ha consegnato.
Queste ed altre ragioni che sarebbe fuori luogo esporre, depongono chiaramente a sfavore dei Disobbedienti, i quali avrebbero fatto meglio a scegliersi un altro epiteto e soprattutto un altro vessillo da innalzare e in nome del quale “scendere in piazza”.
Ma non fidatevi di me e di quello che finora ho detto. Anzi, non fidatevi di nessuno. Fidatevi solo di voi stessi: controllate di persona se quello che ho scritto risponde o no a verità. Richiederà un po’ di tempo, qualche grano in più di volontà, ma alla fine ne sarà valsa la pena. Per voi, dico, per la vostra personale crescita interiore. Perché le cose conosciute “per sentito dire” o “per interposta persona” valgono meno di niente per chi desidera sapere “come stanno realmente le cose”.
Anche in questo Thoreau credeva fermamente.
In conclusione, una battuta per stemperare l’atmosfera di serietà che volente o nolente ho suscitato. Ricordate il film L’attimo fuggente? Ebbene, durante una delle scene più memorabili, quella in cui il gruppo di ragazzi si riunisce di notte nella grotta in mezzo al bosco per "dichiarare risorta" la Setta dei Poeti Estinti, uno dei protagonisti legge un paragrafo tratto dal libro più famoso di Thoreau, Walden; o Vita nei Boschi, che proprio quest’anno festeggia il 150simo anniversario della sua pubblicazione. Il brano recita testualmente:
"Andai nei boschi perché desideravo vivere deliberatamente, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace d’imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto".
Thoreau mi perdoni, ma mi sono divertito a volgere questo brano così:
"Andai a Genova perché desideravo manifestare politicamente, per affrontare le “cariche” della polizia, e per vedere se non fossi capace di disobbedire a quanto essa aveva da impartirmi, e non scoprire, in punto di morte, di non aver militato."
C’è una bella differenza, non vi pare?

© Stefano Paolucci
(Membro della Thoreau Society, U.S.A.)
© 2004




POSTED By: videosurf.it, aprile 2004

Grottaferrata, 13/22 aprile 2004